domenica 11 agosto 2013

Danzare il rito

Ada D'Adamo, Danzare il rito - Le Sare du printemps attraverso il Novecento (Roma: Bulzoni, 1999).


Le Sacre du printemps, the Rite f Spring, la Sagra della primavera. Rito, danza, sacrificio. La coreografia è l'opera più importante dei Balletti Russi capeggiati dall'eclettico Sergej Djagilev. Ideata da Vaclav Nijinskij nel 1913 sull'ormai celeberrima musica di Igor Stravinskij, è un'opera culto, punto iniziale della contemporaneità e fonte inesauribile di continue rivisitazioni. Riprese i riti pagani del folclore russo e si ispirò ai sacrifici umani al dio sole Yarilo, con le scenografie di Nicholas Roerich, che non era solo un pittore affermato, ma anche scrittore, teosofo, archeologo e filosofo che contribuì alla genesi del balletto in modo preponderante, nonostante il suo ruolo sia rimasto in secondo piano rispetto a quello di Nijinskij e Stravinskij.

Lo studio di Ada D'Adamo presenta un'analisi dettagliata della coreografia di Nijinskij e delle sue rivisitazioni più significative nel corso del Novecento, come quelle di Maurice Bejart e Pina Bausch. Com'era la Sagra della primavera del 1913? In realtà non lo sappiamo con certezza, in quanto la coreografia è andata perduta, anche se ha lasciato dietro di sé una scia luminosa di documenti e testimonanze, a cominciare dai bozzetti di Roerich e le testimonianze di figure vicine a Nijinskij, come la sorella Bronislava. Certo è che la prima rappresentazione fu uno scandalo, con il pubblico che si espresse con "risate, fischi, battute" tanto che, come sottolinea una delle danzatrici, Marie Rambert (che sarebbe divenuta strumentale per lo svipullo del balletto britannico), "cercavamo tutti disperatamente di tenere il tempo pur senza udire chiaramente il ritmo. Tra le quinte Nijinskij ci guidava contando le battute (...). Dopo l'intervallo le cose peggiorarono e durante la danza del Sacrificio si scatenò un vero pandemonio".

Perché il Sacre scatenò così fortemente le ire del pubblico? Due sono gli elementi radicalmente innovativi: la musica e la coreografia. La musica di Stavinskij si caratterizzava per un ritmo dissonante con parti poliritimiche e bitonali. D'Adamo non si sofferma sull'analisi musicale, in quanto è la coreografia il centro del suo studio. E la coreografia di Nijinskij fu una vera rottura col passato accademico del ballerino e coreografo che ideò dei movimenti en dedans, con la rotazione dei piedi in dentro, così da limitare alquanto le possibilità di movimento delle gambe; aggiunse un incurvarsi della schiena dato dal piegamento delle ginocchia, "con uno spezzettamento di tutti i segmenti del corpo". Nijinskij si ispiarava ad un primitivismo arcaico che tendeva a negare i principi formali della danza classica sulla quale si era formato, come i piedi en dehors (ruotati in fuori), "l'estensione, la verticalità (...) l'uso delle punte". Ebbe, a questo proposito, numerose difficoltà con i ballerini per i quali era complicato allontanarsi dalla tecnica accademica per 'deformare' il corpo secondo le sue indicazioni.

La critica fu spaesata dalla forza animalesca della danza e dalla musica così fragorosa. Vi fu chi lodò gli interpreti e chi criticò addirittura il comportamento del pubblico, come Pawlowski che "è il primo ad usare l'espressione Massacre du Printemps per definire l'atteggiamento 'scandaloso'" del pubblico. In particolare, da lui in poi si fa una distinzione fra il Nijinkij ballerino e il Nijinkij coreografo, dove il primo viene esaltato per le sue doti tecniche e interpretative, mentre il secondo viene giudicato un artista mediocre. Altri, come Octave Mause, collegano l'articolazione del movimento del Sacre alla ginnastica ritmica di Jaques-Dalcroze per via della "perfetta armonizzazione di musica e danza ottenuta dal coreografo". E Jacques Rivière è il critico che produce l'analisi più significativa, definendo il Sacre "un balletto biologico. Non è solo la danza dell'uomo più primitivo; è anche la danza di prima dell'uomo (...). E' la primavera vista dall'interno, la primavera nel suo sforzo, nel suo spasimo, nella sua germinazione".

Come si è detto la versione del 1913 è andata perduta, ma nel 1987 il Joffrey Ballet presenta a Los Angeles la ricostruzione fatta dalla coreografa, storica della danza e disegnatrice Millicent Hodson in collaborazione con lo storico dell'arte Kenneth Archer, riportando in vita una buona parte del lavoro di Nijinskij. 

Nel 1920 Djagilev chiese ad un altro coreografo, Leonid Mjasin, di ricreare il Sacre, mantenendo la musica di Stravinskij, che sarà comunque il filo conduttore di pressoché tutte le altre rivisitazioni. Nijinskij si era ormai da tempo allontanato dai Balletti Russi a causa di una malattia mentale che lo stava divorando e Djagilev si affidò a Mjasin per una nuova versione. Mjasin non riprese la marcata animalità di Nijiskij e, nonostante il suo uso dei piedi in parallelo, si basò però su di un "rigore classico su cui si innestano una varietà di movimenti delle braccia e del torace". Compose un balletto astratto, studiando approfonditamente la musica e restituendole così "il suo valore di costruzione architettonica". 

Nel capitolo che chiude la prima parte D'Adamo poi traccia un bel panorama sulla concezione del corpo nel Novecento, per mostrare come la coreografia di Nijinskij risulti più comprensibile se contestualizzata e messa a confronto con gli ideali del corpo che nel primo Novecento si erano sviluppati. Esempi significativi furono la concezione del "corpo naturale" di Isadora Duncan e il ritorno alla natura propugnato dalla comunità che visse a Monte Verità, in Svizzera, comunità che "lottava per liberare il corpo da ogni costrizione", comunità che vide fra i suoi adepti anche il teorico della danza Rudof Laban e la danzatrice e coreografa Mary Wigman.

Nella seconda parte vi è la presentazione di alcune delle più importanti revisioni del Sacre, come quella "auto-mitizzante" di Mary Wigman stessa (1957), quella sensuale di Maurice Bejart (1959), quella del "conflitto tra i sessi" di Pina Bausch (1975), quella giapponese-domestica di Mats Ek (1984) e quella sciamanica di Martha Graham (1984). Fra queste quelli di Bejart e Bausch sono i  remake forse più celebri. Il primo trasforma il sacrificio del'Eletta nell'accoppiamento fra uomo e donna, celebrando, come sottolinea Bejart stesso, "l'amore umano", mentre il secondo mette in scena il fronteggiarsi dei sessi affidando a uomini e donne una "diversa qualità del movimento" e mettendo in discussione il ruolo dell'Eletta, portando così gli spettatori a riflettere "sul perché il sacrificio rituale debba essere legittimato all'interno della società".

La terza ed ultima parte del libro è forse uno degli apporti più affascinanti del testo, dato che si concentra sui remake fatti in Italia, come quello di Aurelio Milloss (1941 e 1967), Ugo dell'Ara (1972), Vittorio Biagi (1975), Efesto (1987) e GMM (Giovanotti Mondani Meccanici) (1989). Il volume si conclude con alcune versioni fatte nel corso degli anni Novanta, fra le quali spicca quella della canadese Marie Chouinard (1993), dove il rito sacrificale diviene uno studio scientifico sull' "apparizione della vita nella materia".

11 agosto 2013

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